Eravamo mare

Sono cresciuta vicina al mare. Ho sempre pensato che, senza la sua presenza, la mia vita avrebbe seguito altre strade. Avrei guardato un orizzonte più ristretto, avrei respirato meno nei momenti di difficoltà.
Sono continuamente attratta dalle linee di spiagge, onde, rocce. Tutte si assomigliano e parlano un linguaggio simile. Una volta, osservando a lungo l’oceano e il suo movimento, ho percepito come tutti apparteniamo a quel moto perpetuo e ampio. Questa intuizione mi ha stimolata a continuare la mia ricerca. Le immagini della serie non hanno colori brillanti: evocano atmosfere remote e familiari attraverso toni malinconici e nostalgici, a simboleggiare qualcosa che abbiamo perso e che continuiamo a cercare. Mi chiedo se le persone non si rechino al mare per ritrovare una parte di sé. Siamo fatti per la maggior parte d’acqua, ed esprimiamo le nostre emozioni con le lacrime e il sudore – acqua salata. Nasciamo in un mare profondo e miracoloso, il ventre di nostra madre. I nostri antenati sono i pesci, i quali, solo dopo diverse Ere geologiche, hanno iniziato a toccare la terraferma. Sento che nel nostro DNA ci portiamo dentro tutto ciò. Forse per questo ogni luogo di mare porta con sé una malinconia indefinita, un senso di perdita. Le immagini vogliono dare forma a questo senso di solitudine, struggimento, rispecchiamento e poesia, che il mare eternamente racchiude. Eravamo mare.
(Grazie a Silvia Bigi e Percorsi Foto-sensibili per avermi aiutato a trovare nuove tracce creative per il mio lavoro )

Scuola è vita

Sono un’insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e non posso più rimanere in silenzio davanti a ciò che sta accadendo da tempo. Già da anni la scuola è stata colpita al cuore della sua vera missione, e ai docenti sono stati tolti, pezzo per pezzo ma inesorabilmente, gli strumenti per esercitare la professione: l’amore per la conoscenza, la trasmissione dei saperi, l’ispirazione nel mondo del lavoro. Tutto ciò è passato in secondo, terzo, quarto piano in nome di una cultura assistenzialista, che chiede ai docenti di sopperire alle carenze educative delle famiglie e di tacere sulle reali attitudini degli studenti, che sono il vero terreno su cui un professionista dell’educazione è chiamato a lavorare.
Da quando è iniziata l’emergenza sanitaria, questo processo si è fortemente acuito; sta passando a lettere cubitali il messaggio che, in tempi come questi, la cultura e il sapere non sono necessari, sono all’ultimo posto della scala di priorità, e così è anche la loro condivisione all’interno delle aule scolastiche. Nel frangente storico che stiamo vivendo è assolutamente il contrario: i ragazzi hanno più necessità che mai di sapere, di conoscere, di impiegare la propria intelligenza e creatività, e soprattutto di sentirsi pienamente parte di una rete culturale e sociale. Stanno accusando, loro malgrado, il colpo di una situazione che li tiene isolati nel momento della loro massima energia fisica e mentale, costretti a comunicare attraverso dispositivi. Ho sentito colleghi amareggiati dire che la didattica è un obiettivo assolutamente secondario nella didattica a distanza, perché prima di tutto occorre verificare che dall’altra parte ci sia almeno qualcuno che ci ascolti. Chi è rimasto con una coscienza accesa in questa tenebra mediatica, sente che si poteva fare diversamente e che la distanza imposta a questa generazione cela la privazione di un diritto fondamentale dell’uomo, che è quello di sapere, di scoprire chi è nel rispecchiamento con l’altro e di tracciare la strada verso la propria realizzazione. La formazione si fa in presenza, è una linfa che non può passare via cavo: è nella relazione che l’individuo evolve.
Nell’isolamento e nella solitudine avanzano i fantasmi del non-sense, della depressione, dell’inerzia. La comunità scolastica si sta disgregando giorno dopo giorno. La rete di persone, ideali, entusiasmi sta cedendo le sue maglie agli slogan del terrore che ad ogni ora, in qualunque canale radio-televisivo, vengono proposti. E senza questa rete i ragazzi cadono. Sia per esperienza diretta nella scuola in cui insegno, sia da racconti di colleghi alle medie inferiori del territorio, conosco le situazioni di studenti che rimangono assenti, per periodi più o meno lunghi, e non si sa bene perché, se in una quarantena, o perché stanno male , o perché le famiglie sono immerse nella paura. Molti sono i ragazzi che hanno attacchi d’ansia e di panico mentre sono a scuola. Le bidelle riportano che ogni giorno qualcuno chiama a casa perché ha la tachicardia, o non respira, o avverte l’angoscia indefinita che questa generazione sta conoscendo molto, troppo presto. Qual è il prezzo che questi ragazzi stanno pagando per, come recita la motivazione più in voga, “non infettare da asintomatici anziani parenti”? Qual è il vissuto che stanno incamerando nelle loro anime degli anni che dovrebbero essere i più spavaldi, sconfinati e irrazionali della loro vita? Quali prove e confronti si stanno perdendo, senza nemmeno sapere se la loro “ carica virale” è poi così alta da giustificare tutto questo?
Forse sarebbe il momento di assumersi la responsabilità, da adulti, di prendere atto di qual è la realtà del disagio degli adolescenti e di quanto li stiamo privando di diritti fondamentali, prima di tutto quello alla salute che è sì quella fisica, ma prima di tutto è quella emotiva e psichica.